Quando parliamo di donne e produttività dobbiamo partire inevitabilmente da un dato di fatto: ...
di Simona Petrozzi
Quando parliamo di donne e produttività dobbiamo partire inevitabilmente da un dato di fatto: la crisi economica colpisce le donne in maniera particolare:
- sono le prime ad essere espulse dal mercato del lavoro, o ad uscirne volontariamente per dedicarsi alla famiglia;
- sono le più interessate da forme contrattuali precarie o anomale
- e anche nel caso facciano carriera difficilmente riescono ad entrare nella stanza dei bottoni, tanto che solo un dirigente su dieci in Italia è donna, contro la media di tre su dieci degli altri Paesi Europei.
Se continuiamo così, le nostre imprese rischiano di perdere un capitale importante di qualità e valori specifici dell’universo femminile. Ritengo quindi che sia una questione economica e di produttività prima ancora di essere una questione politica di parità di diritti.
Perché lo dimostrano i dati laddove vi sono donne al comando delle aziende si registra un’inclinazione al fatturato sempre più crescente rispetto all’universo maschile: in media circa il 3-3,5% in più che un uomo.
Un dato che fa riflettere e che mette in evidenza la capacità di relazione delle donne, la capacità di gestire il personale, la capacità di guidare un’azienda come una famiglia. Questi sono i grandi punti di forza delle manager in rosa ed è questo che dobbiamo valorizzare e non certo stroncare sul nascere.
Perché in molti casi è questo invece quello che avviene. Anche se gli ultimi dati dell’Osservatorio Censis-Confcommercio dimostrano che le imprenditrici sono sempre di più e non si scoraggiano facilmente. Forse anche perché in Italia non è che possano permetterselo tanto. Nel nostro paese, infatti, creare un’attività imprenditoriale al femminile spesso si trasforma in una sorta di gara a ostacoli. Per mettersi in proprio a volte una donna deve “fare un’impresa” nel vero senso della parola.
Il problematico rapporto con le banche, gli scarsi incentivi, la difficile gestione della vita famigliare, una certa prevenzione diffusa: sono queste le “asticelle” che una donna, intenzionata a rimanere se stessa e farsi al tempo stesso imprenditrice, deve superare.
È indubbiamente un ritardo che coinvolge l’intera società italiana, ancora molto distante dai modelli virtuosi, quali i paesi scandinavi, dove la parità dei sessi è reale e attraversa la vita di tutti i giorni; o gli Usa, in cui operano gruppi di pressione molto forti e strutturati, in grado quindi di svolgere un lavoro di lobbyng e di influenzare governo e istituzioni.
L’arretratezza italiana nell’affrontare la “questione femminile” nel mercato del lavoro autonomo (ma anche in quello dipendente, occorre ricordarlo) è testimoniata da molti aspetti: si va dalla carenza di servizi di base e opportunità (asili nido, orari flessibili ecc) alla scarsità di finanziamenti (la legge 215/92 sulle “azioni positive per l’imprenditoria femminile è un guscio vuoto, essendo priva di fondi) o alla difficoltà di accedervi.
L’URGENZA DI UN MODELLO DI LAVORO AL FEMMINILE
Per questo abbiamo bisogno di creare un modello di lavoro, di impresa e di società, fatto anche a nostra immagine e somiglianza, e non più soltanto ad immagine e somiglianza degli uomini. Un modello al femminile che, ad esempio, valorizzi le capacità relazionali, rispetti la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, che esalti la creatività, che perda alcune rigidità per promuovere invece la nostra capacità di organizzarci e di essere duttili.
Se vogliamo questo nuovo modello di lavoro e di impresa, dobbiamo darci da fare. Non possiamo delegare a nessuno questo compito. Non perché i nostri colleghi uomini non se ne prenderebbero carico, ma perché siamo noi – solo noi – a sapere cosa ci vuole e come fare per ottenerlo.
Per il resto, siamo imprenditori come i nostri colleghi, con gli stessi problemi e le stesse opportunità di stare sul mercato.